5.12.06


Biancarosa

Biancarosa voleva bene al fanciullo, come al figlio che la sua scelta di ragazza le aveva sempre negato.
E lui si abbandonava volentieri fra le sue braccia, con cieca fiducia, arrestando ogni volta il tremito delle piccole braccia senza forza.

Era lei che lo raccoglieva dal suo letto di sofferenza la mattina, lei che gli sfiorava la fronte con un bacio per farlo uscire dall’incubo buio al primo raggio di luce, quando il mondo di dolore che lo circondava era ancora assopito dalla stanchezza.
Lui l’amava, come un essere indifeso riesce ad amare chi lo difende dalla paura, come un ferito ama chi lo soccorre, rincorrendola ogni volta con lo sguardo, mentre attraversava leggera la penombra della stanza.
Era la madre lontana, la sua culla ovattata, la speranza rinnovata ogni volta, la sua principessa profumata di rosa, come il suono del suo nome delicato ed intenso.
La sua pelle era di seta, il suo sguardo azzurro e colmo di gioia, le sue mani attorno al viso calde e sicure.

Era emozione quella che gli mostrò quella mattina, o forse solo gioia mista a nostalgia, dentro agli occhi una pennellata di tristezza, una lacrima nascosta dalla luce di un sorriso meno ampio del solito.
Era l’ultima volta che lo abbracciava, l’ultimo gesto di amore adagiato sul piccolo busto contorto, sorretto con affetto per lunghi mesi. Il cuore batteva forte, il suo abbracciato al suo, in un’intensa coppa di pace.
In un eterno, brevissimo istante.

Molti anni dopo, ciò che al ragazzo diventato uomo resta di Biancarosa è solo l’immagine velata di un viso di velluto.

Un nome che profuma di gratitudine. Un’ombra di dolore che da sempre accompagna il suo tempo.

Con l’insopprimibile certezza che per una volta, tanto e tanto tempo fa, l’Amore è riuscito a sopravvivere a se stesso.