20.4.07


Giochi?


C’è qualcosa che può dar senso ad un gioco?
Certo, per un bimbo che rincorre una palla, la cosa ha poca importanza. Tutto quel che veramente gli interessa è colpirla più forte che può, solo per il gusto di ascoltarne il suono che rimbalza tra i raggi di sole, o per riuscire una volta almeno ad entrare dentro l’azzurro che ne ricopre il cielo.
Ma quando un uomo stanco d’anni si sente chiedere se gli piace giocare, la risposta è forse scontata, ma si tira dietro, nascosto nell’ombra del suo saper tergiversare per poter poi decidere, il desiderio di capire dove si nasconda il senso di questa attrazione verso la sua faccia nascosta di ragazzo senza tempo.
Forse è solo la speranza che ci si possa sempre nascondere dietro una giustificazione qualsiasi, o che la spensieratezza, che riemerge incandescente dalla cenere degli anni, abbia una ragione misteriosa a sorreggerne la leggerezza.
Ecco, forse alla vigilia della stanchezza, è proprio la voglia di scoprire qui una regola che dia un senso all’attimo, racchiuso nella parentesi di questo minuto di libertà dalla malinconia del dovere, a farci amare questo suono lontano.
Perché in fondo ciò che sorregge qualsiasi gioco, sia fatto di parole che svolazzano libere sopra una tastiera, o di fibre di carne e sangue che si contraggono per balzare al di là di un numero, è solo il fatto di essere finalmente liberi di accettare una regola, all’interno della quale vivere senza timore di non essere al posto giusto.
Vincere o perdere è solo una conseguenza possibile, a volte inevitabile, ma non necessaria. Quello che conta veramente è che in questo intervallo di verità ciò che si può è ciò che si deve, senza doppi sensi o regole modificate in corsa.
La fatica è solo fatica e non lavoro da pagare, il premio sono l’orgoglio ed il sorriso, la punizione è l’accettazione umile di un istante di rabbia.
Insomma, anche a 50 anni un calcio di rigore può continuare a far urlare di gioia, purché non sia frutto di una finzione.
Per quelle basta già la vita vera.