7.2.07


Devo

Il dovere, il pensiero del dovere, la sua impronta nel cuore, il senso della sua necessità, o forse solo della sua possibilità, ha accompagnato da vicino la mia vita, credo più per abitudine che per scelta consapevole.
In ogni caso, spesso il dovere per me assurge al ruolo di parametro, nei giudizi sulle persone e su me stesso, quasi che la sua ombra così somigliante a quella di mio padre, fosse ogni istante il segnale del limite fra il lecito e l’illecito, fra la scelta meditata e il semplice colpo di testa.
Mai però prima di ieri mi era capitato di pensare al fatto che “nessun atto di dovere si sottrae alla propria punizione”.
Quest’idea mi è rimbalzata addosso con una violenza insolita. Forse non ha nemmeno un vero e proprio senso. Ma se mi soffermo sul fatto che questa punizione non è una conseguenza del dovere, un dare contrapposto ad un avere mancato, ma piuttosto è l’essenza stessa di ciò che deve essere fatto, la fatica che fa diventare giusto un semplice effetto, l’obbligo che si fa morale a prezzo di una sofferenza più o meno consapevole, allora ogni azione che segue una scelta finisce per diventare per me un’espiazione di qualche strana colpa, nascosta nell’ombra dell’inconsapevolezza.
E il senso di vaga tristezza che accompagna il lavoro, o l’affetto fatto di abitudine e di paura della solitudine, spaventa proprio a causa del suo stesso esistere.
Mentre il castello delle convinzioni e dell’integrità, sente i propri bastioni sfaldarsi improvvisamente, pietra dopo pietra, granello dopo granello, comandamento dopo comandamento.
Sotto i colpi implacabili del suo stesso perché.