15.10.09


Copincollo


"Problemi bioetici e problemi educativi hanno in comune la questione antropologica. In entrambi i casi tutto dipende dalla concezione dell’uomo: soggetto di libertà o uomo-macchina che agisce secondo procedure determinate? Nel primo caso l’antinomia tra la visione della salute e della malattia in termini meramente materiali e una visione umanistica è di solito evidente e chiara a chiunque. Anche nel secondo caso l’antinomia dovrebbe essere evidente: l’educazione è una mera applicazione di tecniche pedagogico-didattiche o mira alla formazione di una persona capace di porsi domande di senso? Invece, purtroppo, molti di coloro che aderiscono convintamente al secondo punto di vista, poi, quando vengono ai fatti, si adeguano ai più piatti tecnicismi pedagogici. Insomma, sulla questione educativa si manifesta un basso livello di “vigilanza epistemologica”, ovvero una scarsa capacità di tenere lontani quei cavalli di Troia che vanificano anche i propositi più convinti.
Ritengo che il volume “La sfida educativa” (Laterza, 2009) – opera importante del Comitato per il Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana – esprima un livello sorprendentemente elevato di “vigilanza epistemologica”. Questo libro – che spazia su tutti i temi della crisi educativa, famiglia, scuola, impresa, lavoro, consumo, mass media, ecc. – pone al centro la questione antropologica, individuando come fattore primario della crisi educativa la scomposizione dell’umano: scissione tra intelligenza e affettività, riduzione della razionalità alle forme analitiche indotte da una visione positivistica della scienza, divaricazione tra educazione e formazione, rarefazione della domanda di senso. E tuttavia – si osserva – la mera invocazione di parole come “senso”, “persona” e “valori” non vale a esorcizzare una crisi tanto profonda. Bisogna «tornare alla radice umana della capacità educativa», ovvero alla consapevolezza che il punto di partenza dell’educazione è il venire-al-mondo e il suo enigma. L’educazione è la continuazione «di quell’agire con cui i genitori per primi rendono ragione al figlio della promessa che essi gli hanno fatto mettendolo al mondo». Di qui il rapporto indissolubile tra generazione ed educazione. L’educazione è «un esercizio di umanità» che mette in gioco molti attori – il soggetto, la famiglia, la scuola, l’insegnante – ed è quindi un’alleanza tra generazioni. L’educazione ha bisogno di “autorità” e di “tradizione” – deve essere conservatrice, diceva Hannah Arendt – perché solo così può fornire gli strumenti adeguati a rinnovare il mondo. La questione del senso si pone nel rapporto del giovane con l’autorità e la tradizione, nonché attraverso l’acquisizione delle «narrazioni delle grandi tradizioni culturali, religiose, morali e politiche, che hanno proposto sensi unitari dell’esistenza, del mondo e della storia»; e non nella metafora postmoderna del gioco, «inteso come gratuità dell’accadere sgravato da responsabilità e da scopi», da cui discende l’idea dell’autoformazione perché «non si può e non si deve insegnare dove si è diretti, ma solo a vivere nella condizione di chi non è diretto da nessuna parte».
Non stupisce che da premesse così chiare e forti derivi la netta condanna del modello che divarica educazione e formazione, «in funzione dell’acquisizione di conoscenze, abilità, competenze, coerenti con l’assetto tecnologico del mondo contemporaneo». La critica coraggiosa del modello aziendalista dominato dall’enciclopedismo, il proceduralismo e il metodologismo, riesce a gettare alle ortiche l’insulsa filastrocca delle conoscenze/abilità/competenze da troppi ripetuta a pappagallo senza capire che non esprime altro che un’ideologia tecnocratica. Né stupisce che l’approdo sia una critica della famosa formula dell’«apprendere a apprendere». Ma è inconsueta la chiarezza con cui viene formulata. Si osserva che la sostituzione di un sapere disinteressato volto al progresso della conoscenza con un apprendimento che si confronta con bisogni pratici, e l’ossessione per metodi di valutazione sempre più sofisticati che la identificano con una misurazione – il che, aggiungo, è anche una sciocchezza concettuale – conducono alla complicità tra una ragione che rinuncia alla ricerca dei fondamenti e una tecnologia antoreferenziale. Di qui l’ideologia dell’educazione come «saper fare», come istruzioni a «come fare a». La formula dell’«apprendere a apprendere» è peggio di una mutilazione: è l’idea fuorviante che educare non significa proporre «contenuti, valori, visioni del mondo», insomma cultura, ma puro e semplice addestramento operativo. Essa comporta la deleteria riduzione dell’insegnante a «facilitatore», mentre costui ha la funzione ben più importante di «presentare, attraverso le diverse discipline, riferimenti simbolici e modelli di comportamento che possano essere significativi per la vita dei giovani».
Queste coraggiose affermazioni fanno del libro uno dei documenti più incisivi e costruttivi che siano stati prodotti di recente sulla questione educativa. Non vi è qui lo spazio per diffondersi sull’analisi dei contesti specifici. Sono temi tanto vasti e complessi che sarebbe troppo pretendere che la «vigilanza epistemologica» non abbia qualche cedimento. Così, di quando in quando, riemergono le famigerate conoscenze/abilità/ competenze e si riaffaccia un gergo didattichese di stile euroburocratico. È ben nota la solerzia con cui l’ideologia di Bruxelles spazza via ogni minima concessione a visioni antropologiche del tipo di quelle sostenute nel libro. Proprio per questo sarebbe stata auspicabile una maggiore attenzione a non lasciar spazio ad approcci contraddittori. Perché prendere per buona la formula dell’“education”, che è un’esemplare applicazione della riduzione tecnicistica dell’educazione? Sarebbe stato anche bene non prendere per oro colato certe statistiche sulla condizione dell’istruzione, anch’esse ispirate a metodi assai discutibili.Concludo con una questione di grande importanza: la scienza. Se al libro è sottesa l’idea che l’approccio tecnicistico all’educazione distrugge una visione umanistica, se con tanta chiarezza si critica la mutilazione positivistica della ragione, non si può eludere il problema di come insegnare le scienze. Né è possibile risolverlo dicendo che le scienze sono educative in quanto conducono alla questione della “verità” attraverso l’esame della «corrispondenza delle loro affermazioni con una “realtà” che non dipende da noi». È comprensibile il timore di esporsi all’accusa di una “riapertura del processo a Galileo”, ma accettare un realismo oggettivista ingenuo e non porre il problema di una tecnoscienza che esprime pura volontà di potenza e nessuna aspirazione alla verità, inficia la forza del discorso. Nessuna educazione alla verità è compatibile con l’elusione del tema del “senso” di ciò che la scienza persegue. Affrontare la questione della scienza – dai suoi aspetti concettuali alle implicazioni concrete sull’istruzione (quali relazioni occorre stabilire tra insegnamento della scienza e della filosofia?) – è un’esigenza che discende proprio dalle tesi proposte in questo libro importante. "


(da qui)