12.5.07


Famiglia

Avevo una famiglia un tempo.
Una famiglia come molte altre, come quasi tutte, senza che nessuno ci mettesse il naso dentro.
C’erano un uomo ed una donna, che forse si amavano, certamente amavano i figli.
C’erano dei figli che forse amavano l’una e l’altro. Certamente temevano uno e si aggrappavano all’altra. C’erano poche parole, molto meno del possibile, mai meno del dovuto. C’erano obblighi, tanti ma non discussi, c’erano possibilità, poche e da strappare coi denti.
C’erano odio e affetto in quantità, c’erano doveri ed ogni tanto diritti, ma il loro peso era facile da portare con l’abitudine ed un po’ di sudore.
C’era certezza della volontà, sicurezza del necessario, speranza del possibile, rifiuto dell’impensabile.
Dio pesava ma non ci si nascondeva mai al suo sguardo.
Il proibito non era pauroso, semplicemente non era.
Le domande erano l’ultima spiaggia, l’autonomia dell’anima la prima vera libertà, il rifiuto dell’autorità un dovere morale solo verso la propria coerenza, non verso le proprie lacrime.
Il lavoro era la radice, il dovere, il destino da accettare e da desiderare.
L’occhio di chi portava addosso il fardello della responsabilità era implacabile e rassicurante.
Avevo una famiglia un tempo.

Oggi un mondo fatto di deboli che sputano sui loro pensieri nascosti, che degradano nell’abisso del benessere senza prezzo e mentono sul loro stesso senso di incompiutezza, distrugge anche la sola illusione di poterla ritrovare, nascosta tra le pieghe di una oasi di libertà, fatta di un uomo e di una donna che osservano un po’ in disparte tre piccoli cuori che si induriscono alla vita.