13.1.11

Down, to the water

- Puoi venire, mamma? Per favore… sto scivolando giù…

L’acqua iniziava ad entrare nell’orecchio destro, con un rombo lontano, come se si stesse avvicinando un’onda gigantesca arrivata dall’orizzonte senza preavviso.
Aveva paura, un’immensa paura di non poter sopportare oltre la fatica di sopravvivere, fosse anche solo per un altro interminabile minuto. La testa leggermente curvata verso la fessura di sole che filtrava dagli spessi scuri che nascondevano le alte vetrate della sala bagni, protesa verso un’improbabile mano richiamata dalla forza invisibile dei suoi grandi occhi color della terra umida, una mano che l’avrebbe potuto raccogliere come un petalo adagiato sulla superficie di uno stagno increspato dal vento. L’avrebbe potuto sollevare con delicatezza, senza ferirlo, muta e materna come una carezza dimenticata, deponendolo sul soffice e tiepido letto posto accanto alla porta. Asciugando assieme alle gocce che scendevano dai suoi riccioli ribelli le lacrime che, lente e discrete, scorrevano lungo la superficie del suo volto disperato.
La grande vasca d’acciaio colma di tiepida acqua immobile, assomigliava ad uno di quei contenitori che le infermiere due volte al giorno gli infilavano sotto le coperte ruvide e pesanti, tra l’attaccatura delle gambe e la schiena, per permettergli di liberarsi finalmente dalla fatica di trattenere i suoi bisogni. Solo, questo contenitore era esageratamente grande rispetto agli altri, enorme al punto da accogliere tutto il suo corpo al suo interno, come una scatola di biscotti gigantesca e misteriosa di cui non si riusciva mai a vedere il fondo.
L’attraversava per tutta la larghezza una ruvida striscia di tessuto intrecciato, macchiata ogni tanto da un alone più scuro, in corrispondenza dei punti in cui venivano appoggiate le teste dei pazienti immersi nel tiepido calore che li avvolgeva nella loro bara d’acciaio.

- Mamma, mi senti? Non ce la faccio più…

Nessuno però riusciva a sentire la sua voce, trattenuta dal terrore e dalla stanchezza.
Ad ogni istante che passava, il piccolo M. si rendeva conto che il peso del suo corpo immobilizzato dalla paralisi stava avendo la meglio sulla spinta dell’acqua che lo avrebbe dovuto sorreggere. Il rombo arrivato dal mare stava diventando assordante, mentre il calore del liquido che scendeva nell’orecchio gli faceva avvertire l’angoscia del tempo che si affievoliva, implacabile.
Provò a girare il capo verso sinistra, distogliendo gli occhi velati dal chiarore del sole aggrappato al muro per dirigerli verso un punto indefinito, posto esattamente sopra la sua testa.

- Scivolo, mamma, scivolo!

Il bordo tagliente della passerella che sovrastava l’abisso iniziava a procuragli un dolore lancinante alla base della testa, inasprito dal fatto che i capelli in quel punto venivano strappati uno ad uno, come per mano di un sadico carnefice, dal peso della lenta caduta verso il fondo.

Mamma! Dove sei mam…
...

Era libero ormai dal filo di inutile speranza che gli aveva imposto di resistere, completamente in balìa del misterioso senso del nulla che lo aveva avvolto.
Il liquido di morte era penetrato in lui dal naso, dalle orecchie e dalla bocca spalancata e muta.
Scendeva lento, come una piuma sorretta da un soffio di aria calda nell’estate della sua breve vita. Scendeva e aspettava. Aspettava che finisse presto. Scendeva, immobile come aveva imparato ad essere da quando la febbre infame l’aveva raggiunto, in quella gelida e lontana notte di febbraio. Scendeva, aspettando di riabbracciare finalmente il viso dell’unica donna che aveva avuto il coraggio di amarlo.

- Ciao mamma, finalmente sei tornata! Ho avuto paura sai? Però adesso è tutto finito…